martedì 13 ottobre 2015

BITS DEATHS starts October 18, 2015 at 09:30AM

BITS DEATHS Estetiche e logiche del game over nei videogames anni ’80 18 > 25 ottobre 2015, 9.30 – 23.00 Spazio Artepassante Stazioni del Passante Ferroviario Repubblica Piazza San Gioachino (Repubblica B), Milano Ingresso: 5 euro. 25 opere a parete, risultato di una ricerca sui finali e sui game over dei videogames anni ’80. Salti, esplosioni, svenimenti, dissolvenze, sbriciolamento di pixel: analizzati facendo dapprima video d’arte e ora una raccolta di quadri. Estetiche e logiche molto differenti da quelle realistiche odierne, ma che contengono ispirazioni, intuizioni d’arte e dinamiche del giocatore molto importanti nel processo evolutivo del medium. http://ift.tt/1L8WBWY
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sabato 10 ottobre 2015

BITS DEATHS - Estetiche e logiche del game over nei videogames anni ’80




BITS DEATHS
Estetiche e logiche del game over nei videogames anni ’80

18 > 25 ottobre 2015
9.30 - 23.00
Spazio Artepassante
Stazioni del Passante Ferroviario Repubblica
Piazza San Gioachino (Repubblica B), Milano
Ingresso: 5 euro.

Nei videogames non si muore mai, eppure si può morire infinite volte. La morte nei videogames è un fatto esperienziale: il nostro avatar fatto di pixels cessa di esistere in un dato punto della linea narrativa e ricompare all’inizio di essa. Forse è ancora lui, forse è una copia perfetta dell’originale. Ad ogni morte del proprio avatar corrisponde una maggiore disinvoltura nel procedere. I game-makers, in particolare agli albori dei primi videogames, hanno dovuto scegliere come rappresentare questa morte dell’avatar, armonizzando necessità tecniche, usabilità ludica, aspetti culturali, spingendo al massimo i motori dei supporti hardware non ancora in grado di produrre realtà verosimili, dunque creando nuovi simboli.



Il cuore per rappresentare l’energia vitale, lo scudo per diventare invincibili: in alcuni casi l’immagine metaforica era a portata di mano, negli archetipi; in altri casi, si doveva assemblare da zero, con pochi pixels a disposizione, simboli che fossero immediatamente comprensibili, semplici ma chiari, magari per rappresentare eventi mai accaduti prima nella storia umana, come il morire ma il rinascere, e all’inizio del percorso.




Nei platforms degli anni ottanta, gli avatar muoiono tutti “con un saltino”. Colpiti da un proiettili, cadendo in un fosso, per lo scadere del tempo disponibile oppure entrando in contatto con un avversario (trovavo questo molto ingiusto, che il contatto uccidesse il mio avatar, e non, allo stesso tempo, il mio nemico); per un attimo l’avatar fa qualcosa “non controllato” dal giocatore: salta, esce dallo schermo, game over, continue?





BITS DEATHS di Lorenzo Barberis


La ricerca di Andrea Roccioletti sulla morte nel videogame arcade è semplice e geniale al tempo stesso.
 La Morte è uno dei grandi temi dell’arte, anche prima di quel 1348 che, con la grande Morte Nera, la peste del ‘300, ha segnato l’autunno del Medioevo e ci ha regalato un capolavoro come il “Decameron”. Per Jung è qui che si fissa l’archetipo attuale della morte come uno scheletro vivente, che ci invita a ballare con lui la Totentanz; o perlomeno è qui che si codifica in quella sintesi degli archetipi occidentali che sono gli arcani maggiori dei Tarocchi, dove rappresenta il XIII, numero non a caso sventurato, e unico Arcano Senza Nome (la morte non si nomina volentieri). Va detto che per gli esoteristi tuttavia l’Arcano XIII non è negativo, ma morte come Nigredo, distruzione per il rinnovamento: e in effetti in tutta la tradizione successiva questo archetipo ha mantenuto la sua ambiguità, orrore e fascino, restando fino ad oggi il paradigma dominante della Morte stessa, con minime e liminali variazioni sul tema nella sua lettura artistica.



Il videogame ci porta la rappresentazione più moderna di questo fenomeno, e Roccioletti, con una operazione artistica, decontestualizza questo evento ritenuto irrilevante, privo di valenza artistica (ma è il significativo nell’approccio col concetto di morte, probabilmente, per le nuove generazioni occidentali dagli ’80 in poi), costringendoci a guardarlo con occhi nuovi. Un’operazione affine, forse, a quella di Lichtenstein e in misura minore Warhol sul fumetto: ma se in quella Pop Art in fondo il comics di partenza era dato come irrilevante (erroneamente), tanto da modificarlo, rimaneggiarlo, e farne oggetto di una deformazione spesso ironica, l’operazione di Roccioletti è filologica, studio e non stigma della morte nel videogame. Se c’è ironia, dove c’è ironia, è nel medium originario, nel videogioco: quello dell’autore è uno studio serissimo.

Per tale ragione, la migliore introduzione al lavoro di Roccioletti è, a mio avviso, un excursus sul concetto di morte nel videogame, un approccio di storia dell’arte che permetterà meglio all’osservatore di apprezzare i singoli elementi che Roccioletti ha estrapolato nel suo percorso di sintesi artistica. Va premesso come tale studio si incentri sul videogame da sala gioco o comunque “arcade”, di azione-avventura cioé semplificata, perché è frequente altrimenti, nel gioco da console domestica, di casi in cui è assente il concetto stesso di Avatar individuato, di “corpo” del giocatore, e diventerebbe più arduo indagare la morte in questo campo. Cos’è “la morte” in Simcity (1989)? Il che non vuol dire che sarebbe affascinante, e qua e là magari daremo qualche esempio.





L’autore sottolinea come il primo videogame, per la sua esigenza di sintesi, deve fare un forte lavoro sugli Archetipi. All’inizio, in un’età potremmo dire quasi per paradosso pre-grafica, col videogame confinato in una forzata astrazione dai suoi limiti tecnici, la morte è Disgregazione. I protagonisti del videogame sono oggetti meccanici, non biologici (leggi: astronavi) e non “muoiono”, esplodono: ma l’esplosione è sintetica, una dispersione di pixel con un breve suono discordante, quando c’è il sonoro. Modello possiamo assumere “Space Invaders” (1974), ma è confermato nella maggioranza dei giochi dell’epoca (un esperto potrebbe eventualmente segnalare delle dissonanze, che sarebbero però casi particolari).

Ancora il primo grande “eroe” del videogame, Pacman (1980) ha una morte disgregante. Esso è indefinibile nel suo essere biologico o meno: sarei più per la prima ipotesi, nonostante la sua vitalità sia spesso meccanica. Ma è la sua morte che lo definisce nel suo essere vita biotica, per paradosso, perché nel morire si disgrega come collassando su se stesso come discogliendosi. I pixel non esplodono, collassano su di loro stessi.





Con Mario (apparso nel 1982 in Donkey Kong), la maschera del videogame più vitale, nasce il “Salto della morte”, recupero di una linea di comando già usata per far saltare l’eroe, che defunge con un ultimo salto, ricadendo a terra. Il colpo ricevuto lo fa sobbalzare, dato che è più intenso di altri e lo uccide (in alcuni giochi, si sobbalza anche solo a ricevere un colpo); ma è evidente che si apre la porta a un più ampio “salto” nell’aldilà videoludico, più diffuso precedentemente nel simbolismo linguistico, non visuale. Nel coevo Bagman (1982) comunque, come coglie Roccioletti, abbiamo anche il corpo della vittima che giace a terra.

Frequente in quest’era è la Sparizione del corpo del morto, con rimozione simbolica: sia che la sparizione avvenisse nel Salto, sia che avvenisse nel Cadavere, il corpo spesso lampeggiava per poi sparire lasciando il posto alla classica scritta Insert Coin. Appare probabile si possa retrodatare: ma un primo apparire dell’archetipo della morte-scheletro è quella del laser game “Dragon’s Lair” (1983), precocemente di alta qualità in quanto realizzata come una breve sequenza di cartone animato (il cartoon circolava anche in TV, con una curiosa struttura a bivi narrativi).





Il pieno ricongiungersi del videogame con la Storia dell’Arte potrebbe avvenire intorno con “Ghost & Goblins” (1985), in cui nel morire l’eroe, un cavaliere medioevale, si riduce a scheletro. Due videogiochi (spurio il primo, a pieno titolo il secondo) di ambiente medioevaleggiante, cosa che favorisce forse il “ritorno all’archetipo”. Una scelta che torna nel – sempre medioeval-fantasy – Rastan (1987).

In Bubble Bobble (1986), di tipo “surreale” come molti platform, e che ha per il resto la classica “morte col salto”, la Morte appare come vero personaggio, che appare a perseguire il giocatore quando questi ha esaurito il tempo a sua disposizione. Anche questa diviene una diffusa convenzione del genere, che del resto ha alle sue spalle radici culturali profondissime (vedi alla voce Samarcanda). Un caso interessante di scheletrizzazione parzialmente censurata è quella di “Golden Axe” (1988) in cui i cadaveri si pietrificavano; nel di poco precedente, e affine, “Double Dragon” (1987) vi era ancora il “salto della morte” e i corpi dei nemici uccisi scomparivano lampeggiando. Parliamo di due giochi di transizione a uno stile più realistico, molto simili come struttura di gioco beat’em up (Golden Axe è in sostanza un D.D. medioevale): il cambio nella morte è quindi significativo. Il nuovo mezzo espressivo permesso dalla migliore grafica, che porta a una tridimensionalità simulata, subito non porta a pensare a una “nuova morte”; ma poi la sollecita. In parallelo, nel tramutarsi grafico la morte ha una mutazione concettuale, dal Game Over al Continue, non più gara di punteggio – in cui il Continue sarebbe blasfemo – ma scoperta di nuovi dettagli di un mondo da esplorare.
È con questo realismo maggiore, credo, che inoltre si rafforza e diffonde una delle tante accuse al videogioco, di banalizzare la morte agli occhi dei ragazzi, corollario ineludibile dell’accusa della “violenza videoludica” come prima era stata accusa del fumetto, del cinema, del grand guignol, del romanzo cavalleresco, e così via.





In parallelo al maggior realismo degli eroi “biologici”, le “morti” delle astronavi et similia diventano spettacolari esplosioni che nemmeno Michael Bay; e non solo per una certa estetica tamarra che vi è sempre stata nel videogioco, ma anche, credo, per segnare la distanza dalla sobrietà forzata e povera delle prime “esplosioni di bit”. Ricordo ad esempio la comicità di un gioco di aerei della prima guerra mondiale, di cui purtroppo mi sfugge il nome, che manteneva gli sprites di esplosioni fiammeggianti e armi al laser, forse recuperati da altri giochi analoghi. Con l’avvicinarsi dei ’90 e l’arrivo degli Adventures abbiamo videogame (domestici) in cui “non si muore”: come detto, gli strategici (Simcity, 1989) e gli adventures. Ma in “Indiana Jones e l’Ultima Crociata” (1989), riprendendo la parallela scena del film, l’eroe può morire sul finale, sempre riducendosi a scheletro. L’archetipo del Graal (le coppe dei Tarocchi) richiama un altro archetipo tardo-medioevale.

E del resto, i videogame domestici possono introdurre la morte in nuove forme. Negli strategici, ad esempio: “Civilization” (1990) e i suoi eredi e cloni “gestionali” parrebbero videogame incruenti, scacchistici: ma è prassi usuale per il videogiocatore medio far morire intenzionalmente la popolazione per fame quando questa si ribella, rendendo la città più piccola e gestibile; in Colonization (1994), pur costandoci dei punti nella valutazione finale, sterminare le civiltà indiane è estremamente conveniente nelle dinamiche di gioco. La morte vi appariva, nella forma di una schermata finale in cui la nostra civiltà, se distrutta, veniva ritrovata dagli archeologi futuri. Accanto a colonne spezzate e statue distrutte, appariva anche un teschio tra la sabbia del deserto. E l’ironica scritta dell’unico frammento tradotto: “Lorenzo will return!” (inserire il nome del giocatore del caso, ovviamente).





Il videogame dai ’90 in poi diviene per paradosso meno suggestivo sotto il profilo iconico. Dotato di maggiori mezzi tecnici, rappresenta la morte con una ampia capacità espressiva, che però sottrae quell’affascinante convenzionalità ed iconismo delle origini. La festa di morte di Carmageddon (1997) è forse il gioco che chiude una stagione e ne apre un’altra, con l’inaugurazione clamorosa del possibile splatter videoludico, nell’anno in cui un film italiano, Nirvana, sorprendentemente indaga la morte nel videogioco (lo schermo si tinge di rosso sangue, e Abatantuono muore).. E infatti anche la ricerca di Roccioletti si incentra sugli ’80. Del resto, la sobrietà dei Bits Deaths, nella loro essenzialità un po’ enigmatica, è in fondo ancora più efficace nell’evocare la fredda sensazione del Death Bite, del morso della morte.

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venerdì 2 ottobre 2015

Sono un cattivo visitatore di mostre d'arte




SONO UN CATTIVO VISITATORE DI MOSTRE D’ARTE

La premessa è che io sono un cattivo visitatore di mostre d’arte. Sul serio. Sono “cattivo” nel senso latino del termine, cioè “captivus”: sono “prigioniero” di forme mentali, preconcetti e aspettative che mi impediscono di vivere al meglio l’esperienza del visitare, ad esempio, una collettiva. C’è voluto del tempo prima che mi rendessi conto, con molto imbarazzo e altrettanto disappunto, di queste mie affezioni mentali, radicate nel profondo ed in parte ancora indefinite, che hanno iniziato a scorrermi nelle vene con i modelli culturali che ho respirato fin da piccolo (sii produttivo, non perdere tempo, non dire quello che pensi veramente) e con i desideri che non sempre erano davvero i miei (diventa famoso, invidia chi è più bravo di te, fatti invidiare dagli altri). Dal momento in cui mi sono reso conto di tutto questo, è iniziata una guerra durissima con me stesso; alle volte ho visitato mostre che non mi hanno aiutato affatto a vincerla, altre – più raramente – mostre che in qualche modo mi hanno dato una mano a venirne fuori. La collettiva COME QUANDO FUORI PIOVE rientra in questa seconda categoria. Il testo critico di Claudio Lorenzoni è un “buon foyer”, un modo di accogliere il visitatore massaggiando la sua mente prima dello spettacolo vero e proprio; e la cura di Amalia De Bernardis accompagna ma non strattona, suggerisce ma non impone, apparecchia e lascia che sia il pubblico a godersi la libertà di scegliere che cosa fare. Ho sempre sofferto – pur essendo io affetto da “incapacità di visitare al meglio una mostra d’arte – l’accanimento terapeutico di certe scelte curatoriali. In questo caso, invece, no.


Ci sono molti modi di intendere una mostra, a seconda degli scopi che si vogliono raggiungere. A me piace pensare che sia uno spazio di incontro: tra artisti e pubblico, tra opere e sguardi sulle opere; ma non solo. E’ una cosa positiva quando una mostra diventa molto di più che un semplice spazio espositivo, cioè si trasforma in un luogo dove accadono delle cose: le opere, nella mente del pubblico, si evolvono, in parte conservano il patrimonio genetico dato loro dall’artista, ma diventano anche altro, a seconda dell’interpretazione dei visitatori. Se poi si tratta di una collettiva, questa reazione è elevata all’ennesima potenza, ed è anche più difficile da controllare: come una centrale nucleare, può fornire energia, oppure può disintegrare tutto nel raggio di parecchi chilometri: artisti, opere, pubblico. Può capitare quindi di visitare mostre che vogliono semplicemente “consegnare un pacchetto” già confezionato, e mostre che invece  agevolano questo processo creativo, e riconoscono ad ogni partecipante – artisti, opere, pubblico – il ruolo legittimo. Anche su questo punto la collettiva COME QUANDO FUORI PIOVE raccoglie la sfida di proporsi in un panorama, secondo alcuni già saturo di iniziative, secondo altri  terribilmente ammuffito, come un buon punto di riferimento.


Potrei raccontare il mio punto di vista sulle opere di ciascuno dei partecipanti alla collettiva – ed è stato bello poterne parlare con gli artisti presenti all’inaugurazione – ma perché farlo? Per dimostrare che io ho capito e gli altri invece no? Non sono un critico d’arte. Per aggiungere qualcosa ai contenuti di opere già ricche di loro? Basti sapere che c’è molta, molta contemporaneità, concetti con i quali tutti noi dobbiamo, volenti o nolenti, imparare a confrontarci (e alla svelta, possibilmente, per non soccombere bensì ritornare protagonisti del nostro tempo): naturale e artificiale, permanenza ed impermanenza,  scelta e spontaneità, tecnica ed individualità. No, quello che vorrei fare è invitarvi a dimenticare tutto quello che già sapete sulle mostre d’arte, lasciare a casa le aspettative e i  ragionamenti compassati che si indossano di solito per fare bella figura agli aperitivi, e visitare la colletiva COME QUANDO FUORI PIOVE come si fa quando si arriva in un paese straniero e pian piano si scopre, per analogie e differenze con la propria patria di origine, che non solo gli stranieri siamo noi, ma soprattutto che siamo stranieri anche a noi stessi, e quante cose potremmo scoprire, su di noi e sugli altri, se solo fossimo un po’ meno falsamente sicuri di quello che sappiamo. Andate a vederla, per favore.


COME QUANDO FUORI PIOVE
Spazio MOUV via Silvio Pellico 3, Torino
30.09 > 10.10 lun/ven 17-21 sab/dom 10-21
A cura di Amalia De Bernardis
Testo critico di Claudio Lorenzoni
Opere di Sergio Aiello, Marco Altavilla, Marco Da Rold, Deborah Ieranò, Severino Magri, Francesca Vignale