venerdì 15 agosto 2014

SPOSTA-MENTI




Vivere in città (potremmo spostare l’accento di tutto il testo seguente sul concetto di “vivere”) non mette solo in gioco le relazioni sociali, le prospettive lavorative oppure la sfera culturale. Ha influenza sulla biomeccanica stessa del movimento nello spazio. In un territorio aperto (pensate alla campagna, oppure ad un bosco) il numero di spostamenti possibili è pressochè infinito; gli ostacoli naturali (alberi, fiumi, catene montuose) possono essere aggirati; tra l’altro, sapete quando si inizia ad uscire da un bosco nel quale ci si è persi? Quando si è al centro esatto, nel suo punto di profondo, e si fa un passo in una direzione qualsiasi. Altra cosa rappresenta attraversare un territorio occupato per il 90% da palazzi. In città, il numero di percorsi possibli per spostarsi da un punto A ad un punto B è finito, per quanto molto grande; se inoltre aggiungiamo le regole del: a) non girare in tondo, b) non passare due volte per la stessa strada, il numero di possibilità si riduce ancora. L’aggiunta di queste regole, che può apparire arbitraria, è perfettamente implicita già nel nostro modo di intendere lo spazio e ottimizzare i tempi di percorrenza; la città ci dà una mano con la sua stessa struttura architettonica.


La strada (e il suo percorrerla) è sicuramente un luogo dell’esperienza. E’ provato che, da quando diventiamo indipendenti imparando a camminare, la nostra mente sviluppa connessioni neurali inedite. Il movimento ci permette la sopravvivenza: imparare, spostarci in luoghi dove “stiamo meglio”, fuggire dalle situazioni dannose. La nostra libertà di movimento è uno degli attributi del concetto stesso di vita. Possiamo, però, decidere di diventare stanziali, rinunciare in parte oppure del tutto alla nostra libertà di movimento; oppure, già nasciamo in una situazione che della stanzialità fa il suo punto di forza, una forma mentis trasmessa con il sangue materno. Il calcolo dovrebbe essere: quanto ci guadagno a stare qui, quanto invece a spostarmi. Conoscere il termine di “ciò che è utile per me” è la premessa fondamentale.


Torniamo in città: se per raggiungere l’obbiettivo (la destinazione) il numero di percorsi possibili è limitato, limitata è l’esperienza che se ne può trarre. Da un lato, dunque, abbiamo i vantaggi della stanzialità cittadina; dall’altra, una rinuncia ad un certo numero di possibili esperienze negli spostamenti liberi; si configura dunque come

vantaggi del vivere in città / limitazione dell’esperienza derivata dallo spostarsi

Se il risultato di questa frazione è superiore a 1, allora significa che rinunciare a parte della propria libertà di spostamento è compensato, più o meno ampiamente, dai vantaggi della residenza cittadina stabile. Se al contrario è inferiore a 1, allora la rinuncia alla propria libertà di spostamento non vale quanto il potersi spostare in modo limitato per un certo numero di strade. Possiamo sostituire al termine “città” quello di regione, paese, continente. Tecnicamente non è ancora possibile abbandonare con facilità la superficie terrestre, ma chissà.


Visti dall’alto, i nostri spostamenti seguono traiettorie ben definite lungo corridoi formati dai palazzi, percorsi che ricordano in modo inquietante i labirinti dei topi da laboratorio; per raggiungere il punto B partendo dal punto A, ottimizziamo fatica e tempo scegliendo il percorso più breve; oppure, nel caso in cui ci siano zone in cui preferiamo non passare, operiamo scelte che scendono a patti con la lunghezza del percorso per venire incontro alle nostre esigenze emotive. I nostri spostamenti per le strade della città sono spezzati da angoli variabili, meno frequentamente linee ad arco; e comunque, anche in quei casi, curve non decise dalla nostra volontà ma dal nostro essere in fondo ad un canyon dalle pareti perfettamente perpendicolari al terreno. Ci spostiamo (spostiamo il nostro corpo) attraverso luoghi pubblici, ma solo di transito, che raramente consentono soste; il percorso sicuro, dedicato, è una piccola parte dello spazio disponibile tra palazzo e palazzo, la maggior parte del quale è per il transito dei veicoli. Da un lato abbiamo vetture in coda, oppure velocemente di passaggio, dall’altro, la parete di costruzioni di proprietà altrui; l’orizzontale è per lo spostamento, il verticale è per il riparo, il luogo privato, il luogo dove dormiamo. L’uso dell’automobile si sclerotizza nella difficoltà di trovare un posto dove fermarsi, un parcheggio, si infrangono le regole interiorizzate del non passare due volte nello stesso posto, del non perdere tempo, e si gira in tondo cercando un tratto di accosto al marciapiede non occupato. E ci si arrabbia, perchè si perde tempo.


Da quando impariamo a camminare, prende il via un processo di appropriazione dello spazio, tramite i ricordi: una strada non è solo una strada ma un conglomerato di sensazioni e di esperienze passate, che trasformano lo spostamento in un camminare attraverso la nostra storia, fattasi invisibile ma presente dentro di noi e proiettata fuori di noi. Per i più attenti, i monumenti dovrebbero creare spazi di esperienza condivisa, ma forse l’affollamento di cartellonistica pubblicitaria ci ha fatto sviluppare una scorza difficile da penetrare, anticorpi ai messaggi, quali che siano.


Quando ero adolescente portavo in giro il cane di una signora anziana che non aveva possibilità di muoversi da casa; il cane aveva bisogno di camminare, la signora non poteva più. Ogni volta che il cane ed io passavamo davanti ad una certa scuola elementare – anche se non c’era nessuno – il cane entrava in agitazione, tirava il guinzaglio, voleva giocare. In passato, gli era capitato di zampettare di lì all’ora di uscita degli studenti, e aveva sovrapposto a quel tratto di strada il ricordo del gioco. Anche il cane aveva la sua geografia emotiva. Capitò poi un giorno che incontrassimo un altro cane, in quel tratto di strada, e la giocosità di quello che portavo io contagiò anche l’altro. Mi venne in mente allora che, sebbene il secondo cane non “sapesse” perchè quel tratto di strada fosse “divertente”, aveva appreso dal mio cane quella reazione. Dunque, le conseguenze di un evento possono diventare virali, anche se il soggetto che le trasmette non racconta esattamente il perchè di questo. Se supponiamo che nell’essere umano il linguaggio del corpo trasmetta all’altro più di quanto pensiamo, sicuramente sarà capitato anche a me di influenzare qualcuno, camminandogli accanto in certi tratti di strada, così come io stesso sarò stato influenzato da altri. Senza dirgli perchè quel luogo è triste, oppure allegro.


A tutto questo, aggiungiamo come ultimo termine della nostra equazione immaginaria la tracciabilità tramite dispositivi mobili: che indicano dove siamo, quale strada abbiamo percorso, e calcolano meglio di noi il percorso ottimale per raggiungere un obbiettivo. Con buona pace del fattore casuale. La nostra posizione nello spazio diventa un algoritmo, il nostro spostamento la traccia luminosa di pixels anzichè chimica di una lucciola.


* tutte le immagini sono mappature di performances di walking-art

venerdì 8 agosto 2014

Il dispositivo che desidera





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2 magnifici insolenti starts August 27, 2014 at 09:00PM

Inaugurazione mostra fotografica di Vincenzo Bruno e Luca Drago

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100thousand poets for a change starts September 27, 2014 at 10:30AM

10.30 - 12.30, 15.00 - 18.00 Performance e reading dei poeti Bruno Cassaglia Viorel Boldis Max Ponte Bruno Rullo Silvia Comoglio Roxi Scursatone Franco Ferrero Lidia Chiarelli Mino Rosso Anna Boschi Véronique Champollion Anna Borio Carla Bertola Alberto Vitacchio Gian Luigi Braggio Dario Brondello Antonio De Marchi Gherini Angelo Pellizza Laura Malaterra

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EDS | 7 di 14 | Nella vasca da bagno


Esperimenti di scrittura | 7 di 14
NELLA VASCA DA BAGNO
uno scrittore, immerso in un fluido, riceve una spinta pari al peso della sua scrittura
Per poter scrivere nella vasca da bagno, lo scrittore deve avere una vasca da bagno, oppure chiedere di poter usare la vasca da bagno ad un altro che ce l’ha. “Scusa, posso scrivere nella tua vasca da bagno?” è una domanda che pochi hanno avuto la fortuna di sentirsi rivolgere. E’ chiaro che la doccia è molto diversa, per quanto il rito purificatore dell’acqua sia simile, si potrà tentare l’esperimento di scrittura anche in questo secondo caso; ma così, ad intuito, pare meno agevole della vasca. Altrettanto diverso sarà scrivere in una vasca con idromassaggio, a questo punto si potrebbe parlare di idromessaggio dello scrittore, tutto un ribollire di parole, “il medium è il massaggio”, lo scriveva anche McLuhan.
 Quentin, Fiore, Medium, Massaggio, Andrea, Roccioletti
L’operazione alchemica con la quale lo scrittore si accinge a trasformare la vasca da bagno in una vasca da scrittura prevede che egli stesso sia coinvolto fisicamente, in prima persona. Dunque, se da un lato in molti casi la parola scritta ha una valenza magica di per sè, senza eccessivo coinvolgimento dello scrivente (mettere una firma in fondo ad un contratto, un voto su un libretto universitario…), valenza magica tale da modificare la realtà – per il semplice fatto che si sia versato un po’ di inchiostro su un pezzo di carta – in altri casi, senza la partecipazione dello scrittore, le frasi resterebbero solo ipotesi, pura speculazione. Uno scrittore è scrittore anche se scrive cose che poi non “fa”? Certo che “sì” (questa cosa che il “fa” venga prima del “si” nella scala dei toni musicali andrebbe approfondita); ma come distinguerlo da uno scrittore che scrive quello che invece realmentefa? Si possono dividere gli scrittori in due categorie? Quelli che immaginano, e quelli che fanno; oppure, la scrittura in due prospettive: quella che racconta cose che
-  sono accadute (lo scrittore giornalista, lo storiografo)
-  stanno accadendo (lo scrittore qui-ed-ora, lo scrittore inviato, in diretta)
-  accadranno (lo scrittore paragnosta, lo scrittore exit-poll)
e la scrittura che de-scrive cose che 
-  non sono accadute (lo scrittore revisionista)
-  non stanno accadendo (lo scrittore mentitore)
-  non accadranno (lo scrittore di fantascienza, quando non ci azzecca)
Se concepissimo così la storia della letteratura italiana, chissà come sarebbero divisi in capitoli i libri di testo delle scuole. E chi dovrebbe tenere il registro dell’una e dell’altra categoria di scrittori? Quale ufficio di “controllori” potrebbe verificare ogni singola parola scritta, se corrisponde o meno al vero? E poi, dal punto di vista di chi? Si potrebbero ipotizzare diversi livelli di “aderenza” della scrittura alla realtà? E che dire della buona fede dello scrivente, magari assolutamente convinto che le cose siano andate come scrive lui? Inoltre, per concludere la digressione: c’è una bella differenza se firmo io un libretto universitario, oppure se lo firma un docente: l’inchiostro, la carta e il gesto sono gli stessi, ma è “l’autorità” attribuita da altri, socialmente, a rendere diversa la mia scrittura dal potere di quell’altra. Un po’ come le false giustificazioni di assenza sul diario del liceo. Però, in quel caso, se il professore non si avvedeva dell’inganno, il falso aveva effetti reali ed apprezzabili.
Ma torniamo a scrivere nella vasca da bagno. C’è un precedente importante…
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…che non porta proprio fortuna, ma tant’è. Jean-Paul Marat faceva spesso uso della vasca da bagno, a causa di una dermatite contratta in ambienti malsani; e dunque gli capitava di scrivere immerso in acqua: di necessità, virtù. Nonostante stesse facendo il bagno – errore che gli fu fatale – acconsentì a ricevere Charlotte Corday, che a tradimento gli vibrò una coltellata tale da recidergli l’aorta, forargli un polmone e ucciderlo per l’emorragia in pochi secondi. Dai dipinti dell’epoca, non si direbbe che la Corday, donna così gracile, potesse fare tanto danno: probabilmente fu un colpo fortunato (per lei) oppure sfortunato (per Marat). Che il destino si accanisca contro chi fa il bagno è palese, vedi la frequenza con la quale, proprio nei momenti di immersione in un liquido, il citofono oppure il telefono tendono a squillare. Dunque, prudenza.
Lo scrittore nella vasca da bagno sarà nudo (a meno che non sia particolarmente eccentrico, e dunque faccia il bagno vestito). “Lo scrittore nudo” sarebbe un bel titolo, forse l’hanno già anche usato, chi lo sa. “Il pasto nudo”, nel frattempo, l’ha già preso William Burroughs. E sentendosi (messo a) nudo, lo scrittore scriverà più sinceramente? Oppure si inventerà chissà che, per distogliere l’attenzione (sua, e di eventuali persone presenti, anche se poco probabile) dalla sua nudità? Anche la temperatura dell’acqua potrebbe influenzare la sua scrittura: troppo fredda, troppo calda. Però, acqua a temperatura corporea non fa granchè: anzi, è il punto di forza delle vasche di deprivazione sensoriale, nelle quali si galleggia sostenuti da una soluzione salina della stessa temperatura del corpo, così da ingannare i sensi dello sperimentatore. “Se immergiamo uno scrittore in acqua…” sembra l’inizio di un problema di scuola. Oppure: il corpo umano – dunque il corpo di uno scrittore – è composto al 90% di acqua, e proprio come l’acqua tende a
[qui il foglio cade nell’acqua della vasca da bagno, e parte del testo è irrecuperabile]
…di solito il bagno, laddove è posta la vasca da bagno, è un luogo che permette un buon isolamento acustico, addirittura, alle volte, con un leggero effetto di riverbero…
…”Paura e delirio a Las Vegas”, ricordate la scena della vasca da bagno?…
…lo scrittore folgorato, non da un’ispirazione bensì da un’apparecchiatura elettrica che accidentalmente…
[D’altro canto, lo scriveva anche Catullo: “in vento et rapida scribere oportet aqua”...]
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