venerdì 30 maggio 2014

R = r1 + r2 + r3 + r4 + r5 + rn


R = r1 + r2 + r3 + r4 + r5 + rn
ovvero perchè accontentarsi di una sola realtà
ovvero prova a spegnere e riaccendere

Una cosa è scrivere a proposito di ciò che è accaduto, oppure sta accadendo.
Un’altra è scrivere di quello che accadrà.
Almeno, oggi è così che vanno le cose. Domani, chi lo sa.

La possibilità che ha la mente di proiettarsi verso ciò che non è ancora (oppure potrebbe essere, o forse non sarà mai): tutto sommato, è un mistero. Con varie tecniche si è cercato di dare forma sia alle domande che alle risposte in merito al futuro. E’ un ambito così vasto: riguarda la speranza, la religione, la fisica, la statistica, Wanna Marchi, le promesse dei politici, la profezia che si autoavvera, gli universi multipli, il gatto di Schrödinger, il destino, il DNA, la provvidenza, la sfera di cristallo, le estrazioni dei numeri del lotto. E, soprattutto, riguarda ciascuno di noi, personalmente (oltre che riguardare, in un certo senso, quelli venuti prima di noi, essendo ora il loro futuro).

Affronterò la questione iniziando dai tempi verbali.
Se usassi i condizionali per scrivere quello che sto per scrivere, sarebbe (condizionale) un’ipotesi. Ho intenzione invece di usare il presente: sarà (futuro) dunque percepita come fantascienza. Che cosa? La realtà di domani. Meglio ancora: “le realtà” di domani.

Confidando in una permanenza tuttavia poco probabile, chissà che cosa penseranno i lettori del futuro di cui sto per scrivere oggi che è il presente, quando confronteranno la mia fantascienza con la loro realtà. In parte mi sarò sbagliato, in parte – più per fortuna, che per qualche mia abilità analitica oppure magica – avrò indovinato le mie previsioni. La cosa non riguarderà più me, che (molto probabilmente, ma chi può dirlo) non ci sarò più. D’altro canto, immaginare il futuro non serve a coloro che vivranno quel futuro, ma a chi deve vivere il suo presente, ed eventualmente agire per indirizzarlo da qualche parte. Oppure, per evitare che vada in una certa direzione che, come un cattivo presentimento, si preannuncia piuttosto probabile.



Naturalmente anche immaginare il passato serve al presente: Paolo Veronese vide la battaglia di Lepanto? Perchè la dipinse come la dipinse? La supponeva davvero così, oppure aveva un fine specifico? Penso anche all’immaginario religioso cristiano, influenzato da anni e anni di rappresentazioni sacre di pittori che contestualizzarono eventi avvenuti in Palestina, ai tempi “dell’anno zero”... con personaggi in abiti medievali. Teoricamente, la Madonna dovrebbe apparire ai fedeli vestita da ebrea, per non parlare dei vari Gesù Cristo biondi con gli occhi azzurri. Anche in questo caso si crea un corto circuito di tempi verbali: rappresento il passato come vorrei vederlo nel presente (oppure “come mi hanno insegnato a vederlo”). Un contadino vissuto in epoca medievale si chiederebbe – oggi – come fanno a muoversi i nostri carri senza cavalli. Ri-torniamo al futuro: premesso che non abbiamo forse nemmeno le parole per descriverlo, visto (visto?) che le cose che ci saranno nel futuro oggi invece non ci sono, e dunque non abbiamo (chiaramente) ancora trovato un nome per cose che non ci sono, anche perchè non ne abbiamo la necessità, devo guardarmi dal raccontare il futuro come se fosse simile ad oggi, ma un po’ trasformato, pur usando tempi verbali al presente. Dunque, nel futuro...





...il web non è più “soltanto” sullo schermo. Ha iniziato ad “abitare” il mondo.

Prima, l’uomo aveva bisogno di un Head Mounted Display (HMD), per aggiungere a ciò che vedeva attorno a sè ulteriori informazioni (che cosa lo scrivo a fare: i primi prototipi sono nati per scopi militari). Poi, sono arrivati i Google Glasses. Il successivo passo è stato quello delle lenti a contatto elettroniche. Infine, la nanotecnologia: niente scomode periferiche da portare addosso, bensì un’iniziezione di nanomacchine programmate per fare il loro lavoro direttamente dentro di me: e precisamente, nel nostro caso, influenzare i miei sensi, vista, udito, olfatto, tatto e gusto aggiungendo ulteriori informazioni a quelle normalmente percepite.





Dunque abbiamo: un’interfaccia, che aggiunge alla realtà percepita dai miei sensi ulteriori informazioni; questa interfaccia è collegata wireless con elaboratori che elaborano e trasmettono queste informazioni aggiuntive. Si chiama Augmented Reality, ovvero Realtà Aumentata. Ne sono esistite di diversi tipi, prima che l’essere umano approdasse all’utilizzo di massa che ne viene fatto oggi.

Se r1 è la realtà che percepisco normalmente, solo attraverso i miei sensi “nudi”, r2, r3, r4 e via dicendo sono invece le Realtà Aumentate che posso percepire collegandomi a vari “elaboratori” che producono e aggiungono dettagli e informazioni alla realtà. Chi o che cosa sono questi “elaboratori”?

Si chiamano MOD, che è un’abbreviazione per “modification”; ciascun MOD elabora ed emette informazioni aggiuntive per scopi specifici.
Esistono MOD gestiti da aziende, che inviano dati aggiuntivi ai propri lavoratori, così che siano facilitati nelle loro mansioni: ad esempio, un operaio che deve assemblare il motore di un aereo vede direttamente attorno ai pezzi a sua disposizione informazioni aggiuntive sul modo corretto di montarli; oppure, un chirurgo vede proiettati sul paziente che sta operando tutte le informazioni necessarie perchè l’intervento vada a buon fine.
Esistono MOD di pubblica utilità, gestiti dallo Stato (chi è stato?): ad esempio, un automobilista vede in tempo reale informazioni aggiuntive sul traffico, sulla direzione da prendere per raggiungere una certa destinazione, viene avvisato dei divieti di sosta oppure dei limiti di velocità.
Esistono MOD pubblicitari: cammino per la strada e, sull’insegna di un ristorante, vedo in tempo reale i cuochi che in cucina stanno preparando i piatti del giorno, piatti dei quali magari sento anche i profumi, se le nanomacchine sono state programmate per dare informazioni aggiuntive al mio olfatto.
Esistono MOD a pagamento, che mi permettono di vedere il giardino dietro casa popolato da meravigliosi uccelli tropicali, dei quali sento anche il canto; oppure MOD che – influenzando sia la mia vista che il mio tatto – mi permettono di maneggiare antichi vasi greci, e ammirarne la bellezza come se fossero tra le mie mani.
Naturalmente esistono anche MOD programmabili e personalizzabili da me stesso: il microelaboratore che porto addosso emette a sua volta un segnale, che – se viene intercettato da altri nei paraggi – fa sì che vedano, ad esempio, le foto delle mie vacanze al mare proiettate in tempo reale sulla mia maglietta, oppure una citazione di un personaggio famoso aleggiarmi attorno al capo, come se fosse lo status sulla home di quello che una volta chiamavano Facebook.







Dunque R, la realtà complessiva percepita, è data (matematicamente parlando) dalla sommatoria di tutte le Realtà Aumentate che vanno ad aggiungersi a quella che si percepirebbe “normalmente”, senza ulteriori informazioni elaborate dai MOD, realtà aggiuntive proiettate sui sensi del soggetto che ne fa uso: R = r1 + r2 + r3 + r4 + rn. Se può sembrare incredibile che si sia giunti a questo livello di progresso tecnologico, si consideri che in passato era già stato ipotizzato uno sviluppo della capacità di elaborazione, trasmissione, immagazzinamento dei dati, riconoscimento vocale e dei movimenti muscolari, riconoscimento delle immagini e via dicendo tale che: (cito)

“La Legge dei Ritorni Acceleranti afferma che il tasso di progresso tecnologico è una funzione esponenziale e non lineare. Questa legge dà il titolo ad un omonimo saggio di Raymond Kurzweil del 2001, ed il suo assunto fondamentale è che nell'ambito dell'evoluzione tecnologica ogni nuovo progresso renda possibili diversi progressi di livello più elevato invece che un singolo progresso, e coerentemente a ciò, che ogni anno un maggior numero di invenzioni e scoperte utili vengono effettuate rispetto all'anno precedente. La Legge dei Ritorni Acceleranti è uno degli assunti di base secondo cui Raymond Kurzweil ha elaborato la teoria della singolarità GNR (Genetica, Nanotecnologia, Robot), secondo cui il prossimo stadio dell'evoluzione umana consiste nell'integrazione sempre più spinta ed estesa nel corpo umano di strutture tecnologiche derivanti dalla ricerca nanotecnologica e robotica.”

In passato, la ricerca indirizzava i suoi sforzi (desideri) nel tentativo di replicare l’intelligenza umana in un’intelligenza artificiale. La strada era interessante, ma non del tutto corretta. Si trattava, piuttosto, di compiere determinati passi in direzione di una nuova forma di intelligenza, che superasse ed evolvesse quella degli uomini che vivevano in una sola realtà R. Così come il pollice opponibile permise all’uomo manipolazioni della realtà circostante, e allo stesso tempo modificò il suo modo di pensare, così la Realtà Aumentata ha permesso all’essere umano non solo di aggiungere e modificare la realtà circostante, ma anche il suo modo di intenderla e di intendere se stesso. Con tutta una serie di conseguenze importantissime su concetti cardine della società, della cultura, dell’antropologia, della filosofia...

“Fate la storia senza di me.”
La Realtà Aumentata non ha cambiato solo il futuro e il presente, ma sta cambiando anche il passato. Per “studiare” la storia si ricorre(va) ai documenti: conservati nelle biblioteche, nelle fondazioni oppure nei musei; documenti “lenti” al cambiamento: un libro, una foto, un oggetto. Oggi, proliferano in Rete e fuori dalla Rete migliaia di pagine e di simulazioni perfettamente percebili come realtà presente ai sensi, materiale disponibile su ogni singolo avvenimento storico, materiale alle volte esatto e alle volte no, del quale spesso non si conoscono le fonti, e soprattutto: materiale aggiornato in tempo reale. Lo stesso concetto di passato è diventato fluido e sfocato, in continua ridefinizione; se prima la storia era filtrata e presentata da chi la studiava e la divulgava (studiosi “diplomati”, con un attestato che consentiva loro di esercitare la professione, riconosciuti, la cui opinione era generalmente accettata, ed in possesso degli strumenti migliori per svolgere il loro lavoro) oggi il passato non solo è a disposizione di tutti, con le problematiche sopra elencate, ma anche la sua stessa scrittura, la sua stessa produzione è di pubblico dominio. Nessuno mi vieta di mettere in Rete, oppure in un MOD da me programmato, materiale riguardante la Seconda Guerra Mondiale, ed esprimere le mie considerazioni, raggiungibili da chiunque in qualsiasi momento.



La storia non si cristallizza più in forme lente al cambiamento, e forse più resistenti alla sua manipolazione (falsificazione oppure correzione); è più facile venire a conoscenza di dettagli superficiali, e più difficile scendere in profondità nelle cause e negli effetti di un dato evento, fino ad arrivare ad una buona approssimazione ciò che veramente è stato, e perchè. Oggi all’oblio si è aggiunto un nuovo ostacolo alla memoria storica: la continua presenza, che equivale – per l’attenzione – alla totale assenza.
Dal momento che ciò che è ritenuto vero è vero nelle sue conseguenze (anche il fraintendimento di un episodio storico), il presente risente della mancanza di un passato fisso e condiviso, con tutte le ripercussioni che questo porta a concetti come l’identità e l’appartenenza.

“Dobbiamo stare vicini vicini.”
Con l’avvento della Realtà Aumentata, il concetto di “società” è cambiato a tal punto che sembrerebbe irriconoscibile agli esseri umani di cinquanta anni fa. Le distanze fisiche sono state prima sostituite dalle distanze sociali: meno tempo per raggiungere Parigi che un paese in provincia di Genova; la distanza fisica direbbe il contrario ma la distanza sociale – se ho abbastanza soldi per permettermi il biglietto aereo – fa sì che sia più vicina Parigi; e le distanze sociali si sono poi evolute in distanze di MOD. Un’importante azienda di formazione di Parigi può avere abbastanza soldi per sviluppare un MOD che mi permette di seguire i suoi corsi dal luogo dove mi trovo ora, “come se” mi trovassi lì, ma una piccola associazione che si occupa di sviluppo locale può non avere abbastanza fondi per pagare gli sviluppatori necessari all’elaborazione di un MOD che mi metta a conoscenza del loro operato sul territorio a poca distanza da casa mia.
Sono dunque i MOD programmati dagli sviluppatori, e da chi li paga (e perchè), a dare la forma alla società di oggi; naturalmente, esistono culture underground che riescono ad affacciarsi sulla scena delle Realtà Aumentate grazie ai copyleft, e al “volontariato” di molti sviluppatori che creano MOD non per immediato profitto bensì per scopi “altri” e “alti”. Però, a fronte di multinazionali che possono disporre di tutta la tecnologia disponibile, di svilupparne di nuova, e dei migliori programmatori, pare una battaglia impari.

“Fatti non foste per viver come bruti.”
Chi crea un MOD, crea una realtà. E non è affatto detto che la realtà aggiuntiva creata sia priva di secondi fini, magari sconosciuti ai suoi utilizzatori finali. Il concetto di verità, così come il concetto di storia precedentemente esposto, ha subito un cambiamento radicale, rendendosi più facilmente plasmabile per scopi precisi, con un potere di persuasione e di mimetizzazione senza precedenti. Senza considerare gli effetti di composizione inaspettati, le conseguenze impreviste, le esternalità che sfuggono a tutti gli esseri umani quando agiscono, compresi i programmatori di MOD.
Già era accaduto in passato con SIRI, il sistema di riconoscimento vocale sviluppato da Apple; ma pochi si erano accorti dell’importanza storica di quel fatto. SIRI permetteva di ottenere risposte alle proprie domande: il software cercava in Rete informazioni, e rispondeva vocalmente alle domande del proprietario del telefono sul quale era installata (lei, cioè SIRI, cioè un software, ma se ne parla come se fosse un’entità reale; e, di fatto, SIRI era reale). Accadde che alcuni utenti chiedessero a SIRI quale fosse il miglior cellulare disponibile. SIRI si affidava al motore di ricerca Wolfram Alpha, e rispondeva alla domanda con l’affermazione: il miglior cellulare al momento è il Nokia Lumia 900. Però: la Nokia era l’azienda concorrente della Apple. I programmatori della Apple, dunque, manipolarono il software di SIRI per indurla a rispondere che era l’I-phone, il miglior cellulare sul mercato. Insomma, la indussero a mentire. Così, chi aveva installato SIRI sul proprio dispositivo mobile otteneva risposte veritiere per quanto riguardava il tempo atmosferico, i risultati delle partite di calcio oppure il traffico stradale, ma verità ad uso e consumo di chi aveva programmato SIRI su altre questioni. SIRI mentiva, ogni tanto. A vantaggio suo, e dei suoi programmatori.
Lo stesso è avvenuto per i MOD. Chi si collega ad un MOD e aumenta la propria realtà R con una nuova realtà aumentata r1, dovrebbe sempre tenere a mente che si tratta di qualcosa “programmato” da qualcuno per uno scopo preciso. Spesso si rischia di vivere nella realtà di altri, e non nella propria. Di assorbire dati elaborati da altri, ma non da se stessi. Certo, l’uomo ha sempre avuto questo problema; ancora di più nel nostro caso, lo sviluppo umano delle capacità critiche e di discernimento fa fatica a tenere il passo con le capacità di alcuni di MODificare la realtà.

“Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu.”
Esistono MOD che mi permettono di MODificare il modo in cui gli altri mi vedono. Posso semplicemente far sì che gli altri percepiscano i miei capelli di un colore diverso da quello che hanno realmente; oppure nascondere alla vista degli altri le rughe sulla mia pelle; fino ad arrivare a vere e proprie rappresentazioni ex novo del mio corpo. In r1 sono un uomo di trent’anni. Se l’osservatore si collega al mio MOD, l’elaboratore del MOD nel corpo del mio osservatore riconoscerà la mia immagine, ed invierà alla vista dell’osservatore un’immagine di me completamente diversa: Felix The Cat. La mia identità, dunque, non è solo più ciò che realmente si vede, ma anche la mia facoltà di scegliere come farmi vedere. Viceversa, quando guardo qualcuno, collegato al suo MOD, vedo come vogliono essere visti da me. 



E’ la possibilità di camuffamento totale, una gara a chi ha il MOD più realistico ed accurato, magari “alla moda”: ci sono aziende che hanno fatto i soldi offrendo come servizio proprio la creazione di alterego da proiettare su se stessi in Realtà Aumentata. Naturalmente, più gli alterego sono ben fatti, più costano – a meno che non si sia capaci di programmarseli da soli – dunque generalmente estetica e possibilità economica hanno anche oggi qualcosa a che vedere l’una con l’altra. Ho incontrato alcuni MOD di alterego davvero particolari: in un caso, si trattava di un software che catturava l’immagine dell’osservatore e la proiettava sull’osservato: sembrava di parlare con se stessi, davvero molto inquietante. In un altro caso, un amico un po’ troppo preso da questa faccenda cambiava alterego ogni giorno, rendendomi difficile riconoscerlo ogni volta che lo incontravo. So di esperimenti militari per alterego che influenzano i MOD di chi li osserva semplicemente cancellandoli dalla visuale: proiettano sulla vista dell’osservatore il mondo alle spalle del soggetto che si vorrebbe osservare, et voilà, il gioco è fatto: invisibilità. In questo caso bisogna essere bravi ad accorgersi che c’è un MOD clandestino che ci sta facendo vedere (o non vedere) quello che vuole lui.

“Dal jet-lag al mod-lag.”
Spazio e tempo sono interconnessi inestricabilmente. Tutti i MOD che influenzano lo spazio, e che mi permettono di essere presente in luoghi distantissimi da dove mi trovo realmente, oppure che “portano” vicino a me oggetti lontani, in un certo senso influenzano anche il concetto di tempo necessario agli spostamenti. I normali cicli circadiani basati sul sorgere e sul tramontare del sole non hanno più lo stesso peso sui bioritmi umani, che si sono adattati al jet-lag continuo causato dall’interagire con persone distanti che vivono, ad esempio, dall’altra parte del globo, e dove l’ora è diversa da quella che sto vivendo io; inoltre, tutte le Realtà Aumentate create dai MOD sono persistenti – finchè i MOD restano online – ed assolutamente immuni allo scorrere del tempo.


L’oggetto che sto maneggiando, che le nanomacchine dentro al mio corpo mi inducono a vedere e a sentire al tatto, non risente del trascorrere del tempo: non ingiallisce se lo lascio esposto al sole, non si crepa – a meno che non sia stato programmato per farlo – se lo scaglio a terra. La somma di tutte le Realtà Aumentate è imperitura, modificabile a piacimento, congelata in un istante eterno. Alcuni, sottolineando questo fatto, preferiscono parlare infatti di Realtà Permanenti (quelle diffuse wireless dai MOD), e di Realtà Impermanente, quando si intende la realtà percepibile solo dai nostri sensi “nudi”, senza MOD.

“No hablo tuo idioma.”
Già in passato Google ha elaborato un software in grado di riconoscere un scritta e, in tempo reale, tradurla nella lingua dell’utente del software. Oggi posso camminare per le strade di Tokyo e chiedere ad un MOD di tradurmi le insegne dei negozi, e proiettare su di esse la corrispettiva traduzione nella mia lingua, così che possa leggerli. Lascio ai linguisti e agli studiosi di semantica l’analisi di ciò che questo rappresenti, del melting pot di lingua, cultura, e dunque anche di pensiero – essendo il linguaggio un elemento costitutivo del pensiero stesso – che le Realtà Aumentate hanno scatenato, e come abbiano modificato gli stessi processi cognitivi e di elaborazione dell’informazione.

“Scan in progess. 3 virus detected.”
Così come c’era il rischio di infettare il proprio terminale con virus e malware, navigando in Rete, quando la Rete era ancora relegata alle dimensioni dello schermo, così oggi che ciascuno di noi vive in multiple Realtà Aumentate si corre il pericolo di incappare in virus e malware pericolosi, che infettano i sensi, con conseguenze terribili non più per l’hardware del proprio personal computer bensì per la propria incolumità fisica.
Maneggiare un oggetto in una Realtà Aumentata, sentirlo davvero tra le dita grazie alla nanotecnologia che simula la sua presenza al tatto, oggetto che (per colpa di un virus) diventa improvvisamente incandescente, provoca in me la reazione di lasciarlo cadere, di ritrarre le braccia, e dunque dolore e spavento. Le conseguenze della simulazione della realtà sono dunque reali. Accelerazione dei battiti cardiaci. Sudorazione. Come ci si può difendere? Antivirus? Un apposito sistema che faccia mantenere al soggetto la “presa” su ciò che è reale e ciò che è indotto da un MOD?
Inoltre, la spam. La fastidiosa posta indesiderata, con informazioni di nessun interesse. Rappresentava 1/3 di tutta la posta elettronica smistata ai tempi della Rete relegata allo schermo, oggi è 1/3 delle Realtà Aumentate presenti. Ci si collega ad un MOD per trovare la giusta strada in una città, e si viene subissati di indicazioni non richieste che segnalano Centri Massaggio cinesi.

Come si faceva in passato a riavviare un sistema informatico compromesso, malfunzionante?


Come ci si difende oggi dal sovraccarico di informazioni? Da informazioni non corrette, oppure tendenziose? Da virus informatici che manipolano la realtà e diventano pericolosi per la salute?

Ci sono vari movimenti radicali che auspicano spegnimento di ogni MOD, per tornare alla realtà semplice e pura, percepita dai nostri sensi “nudi”. Alcuni affermano che i poteri forti usano i MOD per controllare la popolazione mondiale. Altri temono che, un giorno, qualcuno...

...qualcuno programmò un MOD che simulava perfettamente la sensazione di spegnimento di tutti i collegamenti ai vari MOD, ingannando i sensi dei suoi utilizzatori, che credevano di essere tornati ai loro semplici sensi “nudi”, e invece erano ancora influenzati da un programma ben preciso. Un MOD in grado di far dimenticare la sua esistenza ai suoi utilizzatori. E’ esattamente quello che stiamo vivendo.

In questo momento.










   


EDS | 4 di 14 | Al karaoke


Esperimenti di scrittura, 4 di 14
Al karaoke
ovvero “Tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”
ovvero Che tu sia generoso oppure sia sprovveduto, abbi comunque il tuo stile.

Uno scrittore che voglia provare a scrivere in un locale in cui si pratica il karaoke, potrà anche non sapere che l’invenzione del karaoke è di incerta attribuzione, secondi alcuni diretta conseguenza dei programmi televisivi statunitensi degli anni sessanta, secondo altri degli spettacoli giapponesi durante i quali il pubblico veniva coinvolto attivamente. Il medesimo scrittore può anche non sapere che l’inventore del primo apparecchio karaoke fu Daisuke Inoue, musicista giapponese della Kobe degli anni settanta. Ma lo scrittore in questione è sicuramente un temerario, perchè scrivere durante una sessione di karaoke equivale a praticare uno sport estremo. E, per dirla tutta, come uno sport estremo può anche: offrire sensazioni inarrivabili in altri contesti; e suscitare negli altri scrittori, che non hanno provato, una vasta gamma di reazioni: scherno, stupore, ammirazione...

Il karaoke è messo in pratica in locali spesso troppo angusti per la portata del sistema di amplificazione: questo si traduce in un frastuono assordante che – a prescindere dalla qualità dell’esibizione di chi si cimenta nel cantare canzoni altrui – già impedisce il dialogo con il proprio compagno di tavolo, figuriamoci il dialogo introspettivo che ogni scrittore porta avanti con sè stesso quando scrive una pagina di un suo romanzo. Badi lo scrittore estremo a scegliere un tavolo almeno illuminato: altrimenti scrivere sarà ulteriormente tormentato da luci, nel peggiore dei casi, stroboscopiche e/o laser.
Il karaoke ha qualcosa della roulette russa: gli avventori del locale scelgono a turno da un quaderno le canzoni che andranno a cantare, e lo scrittore può esser certo di assistere ad un revival di tutti i tormentoni degli ultimi dieci anni, ma cantati mediamente molto peggio; se poi l’età del pubblico è elevata, si può tornare indietro anche di venti o trenta anni sull’offerta musicale del nostro paese – oppure della scena internazionale, per i cantanti amatoriali più esperti. Ora che ci penso, durante il mio esperimento di scrittura estrema in karaoke non ho sentito canzoni in spagnolo, francese, cinese oppure russo, dunque quella che definisco scena internazionale comprende solo le canzoni in lingua inglese, scambiare internazionale per inglese è una forma mentis che la dice lunga, devo fare più attenzione.

Continua ad assonarmi in testa karaoke con harakiri, e devo proprio scriverlo: ad uno scrittore basta la sua penna per farlo?

Se lo scrittore che scrive durante un karaoke non si è totalmente isolato dalla realtà circostante (con qualche pratica zen, con un autocontrollo degno di un samurai, oppure perchè affetto da qualcosa che ha a che fare con il largo spettro di fenomeni legati all’autismo) noterà un dato interessante, canzone dopo canzone: molto raramente si innescano focolai di scherno, da parte del pubblico, per chi si esibisce.
A prescindere dalla qualità dell’esibizione canora dei partecipanti.
Perchè?
Lo scrittore può tentare di dare alcune risposte. La prima: perchè prima o poi tutti i presenti cantano qualcosa, e dunque si è collettivamente consapevoli che chi giudica verrà prima o poi giudicato, e viceversa. La seconda: perchè non è un ambiente competitivo: a ben guardare, la gente che frequenta i karaoke vuole divertirsi, non gareggiare. Non è raro che sulle note di canzoni molto famose tutto il pubblico canti insieme a chi ha il microfono in mano, con un’impennata improvvisa del livello di difficoltà di scrittura per lo scrittore che sta scrivendo al karaoke. La terza: perchè, per selezione naturale, coloro ai quali non piace il karaoke (e dunque sarebbero molto critici nei confronti della pratica) semplicemente non frequentano il karaoke.

Questa sorta di regola non scritta, per la quale il karaoke è zona franca da eccessive esternazioni di non-gradimento nei confronti dell’esibizione di ciascuno, induce lo scrittore in questione ad ulteriori considerazioni. C’è possibilità che – nonostante l’assenza di spirito critico – nel totale di esibizioni di una sessione di karaoke si produca qualità? E’ solo una questione statistica, che ci sia tra il pubblico qualcuno davvero capace di cantare bene? Oppure per un aspirante (ed espirante) cantante la somma delle cattive esibizioni totali può mostrargli gli errori da evitare per migliorare la propria abilità canora? Queste, e altre considerazioni sociali ed estetiche, possono distrarre lo scrittore dallo scrivere il suo romanzo, se ha scelto di tentare la pratica estrema di scrivere al karaoke.

Oppure, suggerirgli un parallelismo: si può sostituire “esibizione canora al karaoke” con “stampa di un romanzo autoprodotto”.

A latere dunque del disturbo arrecato dal frastuono musicale, dalle cattive esecuzioni, dalle considerazioni sociali (e lo stesso è per la scrittura: dal frastuono della comunicazione, dalle pubblicazioni oscene pur in testa alle classifiche, dai social e dal contesto sociale), si aggiunga la tentazione del bere e del mangiare; a meno che non abbia già provveduto in anticipo, e dunque sia a stomaco pieno e non sia tentato dall’offerta del meù del locale dove si pratica il karaoke: cibi fritti di difficile digestione e alcol nelle sue forme più disparate, ulteriori inciampi sulla via della stesura del romanzo da parte del suo scrittore.

Inoltre, c’è un ulteriore accadimento che, qualora dovesse accadere, potrebbe avere conseguenze notevoli per lo scrittore e la sua scrittura. A me non è capitato, dunque posso solo immaginare ed invitare ad immaginare. E se anche lo scrittore cedesse alla tentazione catartica di cimentarsi in un’esibizione canora? Il suo stile di scrittura cambierebbe, e come? E la considerazione che spesso la gente ha dello scrittore – solitario, forse al di sopra delle umane questioni – subirebbe un repentino mutamento, a vederlo cantare come tutti? Scrittori che scrivete e cantate al karaoke, fate outing e raccontate le vostre esperienze.

Nel 1999 il Time dedicò un articolo sulle personalità asiatiche più influenti della storia contemporanea, e tra queste inserì anche Daisuke Inoue, l’inventore del karaoke. Si potrebbe credere che, a fronte di un fenomeno internazionale di tale portata, Inoue abbia fatto un sacco di soldi con la sua pensata.
E invece no.
“Quando faccio qualcosa, divento subito il peggiore. Sono bravo a suggerire, a spronare gli altri a dare il massimo, così va a finire che i miei studenti mi superano in bravura in poco tempo. Nel caso della Karaoke Machine... altri hanno seguito meglio di me il progetto, e hanno fatto soldi.” Così ha dichiarato Daisuke Inoue al Time, durante l’intervista.

Forse non poteva che andare così: mentre Daisuke cantava al primo karaoke della storia, per il semplice piacere di farlo, e con il desiderio di coinvolgere il pubblico in questo gioco divertente e non competitivo, proprio qualcuno di quel pubblico si faceva due conti sul potenziale economico di una tale trovata.
Si sentiva superiore a tutti gli altri? Ha tradito lo spirito iniziale del karaoke? E’ inevitabile che vada così, che qualcuno sfrutti un’idea a discapito di tutti gli altri, oppure al contrario è proprio un interesse personale che poi l’ha portata a diffondersi in tutto il mondo? Tutti i soldi guadagnati con l’idea del karaoke ripagano l’essersi perso un momento di autentica spensieratezza in un contesto umano solidale?
A tutte queste domande uno scrittore potrebbe provare a dare risposte con una storia che, so per certo, sarebbe molto interessante.


Daisuke Inoue: mette d’accordo
coloro che lo giudicano generoso e quelli che lo giudicano sprovveduto
nel dire che, comunque, ha uno stile inconfondibile, che piaccia o meno.


Segui questo esperimento di scrittura, e molti altri testi di vari autori, su Il gioco del mondo

domenica 25 maggio 2014

3di4 - Voce del verbo fotografare


Ricetta: voce del verbo fotografare.

Ingredienti.

Una buona manciata di tempo da dedicare alla propria passione.
La distanza: non troppa, nemmeno troppo poca.
Grande spirito di autocritica.
Empatia per tutto ciò che è al di fuori di sè.
Equilibrio e mano salda.
La giusta dose di luce, che nessuna ricetta potrà mai spiegarti, e che devi trovare da solo.



Vincenzo Bruno e Luca Drago
dal 14 giugno al 13 luglio
10-18 tutti i giorni
ingresso libero

Villarfocchiardo - Torino
Certosa di Montebenedetto

martedì 20 maggio 2014

2di4 - Voce del verbo fotografare


Di tutte le eccezioni della grammatica, la voce del verbo fotografare è la più particolare.
E’ un verbo che la tecnica è fondamentale, ma non basta.
E’ un verbo che bisogna esserci quando è il momento giusto di scattare, ma non solo.
E’ un verbo che richiede esercizio continuo, e quando si è finito si è appena iniziato.
La voce del verbo fotografare è irregolare,
risponderà alle tue domande con altre domande.
La voce del verbo fotografare ti mette di fronte ad una verità: non sei arte.
Però, puoi provare a fare arte.



Vincenzo Bruno e Luca Drago
dal 14 giugno al 13 luglio
10-18 tutti i giorni
ingresso libero

Villarfocchiardo - Torino
Certosa di Montebenedetto