giovedì 29 agosto 2013

Le cose


Quanti oggetti esistono al mondo. Continuamente maneggiamo cose, senza immaginare nemmeno quante persone hanno lavorato al processo produttivo che ha dato l’essere a quel determinato oggetto. Le federe dei nostri cuscini, i legacci delle nostre scarpe, le tastiere dei nostri computer, i pulsanti dei campanelli delle nostre case, i gradini delle nostre scale, i tombini per le strade, le lampade dell’illuminazione notturna. Dietro ad ogni oggetto ci sono decine di persone, che hanno ideato, raccolto il materiale, trasformato, prodotto, venduto, trasportato ogni singolo oggetto che ci circonda, che ci è indispensabile ormai e di cui conosciamo un costo puramente commerciale. Sembra che la razza umana, per poter stare dietro alle proprie aspirazioni, abbia bisogno di una quantità infinita di cose, molte delle quali nascono, vengono usate e poi distrutte senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. Prendo in mano una penna, la uso, senza sapere nulla di chi l’ha prodotta, venduta ricavando il giusto o meno del giusto, per comprare a sua volta altre cose. Le cose sono piene di vite e di attese, di speranze e di volti. E non bastano mai per questa umanità insaziabile dalle aspirazioni infinite.



mercoledì 28 agosto 2013

The Heap @ Sartoria Creativa (P-Ars 2013)


Ed ecco The Heap (P-Ars 2013). Pronta per essere vista dal vivo @Sartoria creativa, via s.Maria 6H, Torino, sabato dalle ore 15.00. Per chi vuole partecipare, nei prossimi giorni comunicherò il numero di telefono da chiamare per attivare a distanza ulteriori meccanismi dell'installazione.




Il male che non vedo

Per molti cittadini tedeschi, durante la seconda guerra mondiale, i campi di concentramento erano una realtà “normale”. Ho sempre temuto la mostruosità della normalità. Non è il male che vedo, a spaventarmi, bensì quello che non vedo, di cui non mi accorgo, che sono abituato a vedere dunque ritenere accettabile, connaturato alla realtà che sto vivendo. Lo sguardo che passa e non si sofferma, credendo di sapere abbastanza su di una cosa per giudicarla positiva o negativa, questa sorta di presunzione per cui si abbia la verità in tasca, a portata di mano, senza impegno e senza attenzione, questo è uno dei problemi fondamentali del nostro secolo. Che in Africa si debba continuare a morire di fame e di sete. Che centinaia di giovani dei paesi occidentali debbano rinunciare alle proprie aspirazioni per pagare gli errori e i debiti dei ricchi, vivendo in storture lavorative per far diventare ancora più ricchi i ricchi. Che il proprio tempo sia stato totalmente monopolizzato dalla produzione, e che non ne resti più per se stessi. E via dicendo. Dunque, creatura ancora non nata che guarderai a questi nostri anni, non essere clemente con i nostri peccati di omissione, e impara dalla nostra ignavia che il male si nutre della normalità.

martedì 27 agosto 2013

Il vocabolario è il luogo in cui


Il vocabolario è il luogo in cui le persone si incontrano, a metà tra due (o più) modi diversi di vedere una cosa. Possiamo essere d’accordo su che cosa sia un “tavolo”. Anche se la stessa parola accenderà in ciascuna mente immagini molto diverse. La parola “tavolo” diventa il confine, la dogana, di due paesi diversi. Ad inoltrarsi in ciascuno di essi, si incontreranno ricordi, immagini, simboli, forse continuando a camminare verso l’ipotetico centro di quello che per ciascuno dei due dialoganti è un “tavolo” forse si scopriranno cose che nemmeno loro sanno di sapere, di ricordare. Ritorniamo all’esterno di questo paese che è una parola per noi: sul confine, il mio “tavolo” e il tuo “tavolo” più o meno coincidono, e dunque se ti dico di avvicinarti al “tavolo”, tu lo capisci, e se lo desideri puoi farlo. Non sono sicuro di tutto quello che la parola “tavolo” accenderà nella mente dell’altro quando la pronuncerò. Mi serve per un obbiettivo immediato, quello di indicarlo, di farlo risaltare in mezzo a tutto il resto della realtà, così che anche l’altro possa vederlo, capire che sto parlando proprio di quello. Ma l’uso pratico prescinde dalle infinite connessioni di ricordi e sensazioni del linguaggio. Come navi sulla superficie.



lunedì 26 agosto 2013

The Heap - nota critica

THE HEAP - 1

L’accumulo psicologico, la disposofobia, la sindrome di Messie. L’accumulo filosofico (la biblioteca di Alessandria), l’aggiungere occidentale, il togliere orientale. L’accumulo politico, più cariche alla stessa persona. L’accumulo storico, la concentrazione delle risorse, quello delle persone nei centri abitati. L’accumulo scientifico, la nuvola –cumulo, la massa che attrae altra massa. L’accumulo sociale, l’insicurezza e il bisogno di accumulo grazie ai quali pochi si sono arricchiti alle spalle di molti. L’accumulo artistico, quello dei collezionisti; nelle arti visive, la scelta tecnica di alcuni artisti; nella letteratura, il romanzo più lungo secondo il Guinness dei Primati, Alla ricerca del tempo perduto, 9.609.000 caratteri; nella musica, la produzione bachiana, quella mozartiana. L’accumulo economico, le teorie del risparmio, Paperon de’ Paperoni, il consumismo. L’accumulo giuridico, cause e procedimenti penali interconnessi. L’accumulo naturale, le formiche nei formicai, le ghiande nelle tane degli scoiattoli.

L’ordine psicologico, il rituale maniacale del disturbo ossessivo compulsivo. L’ordine filosofico, i modelli e le teorie per spiegare il mondo, l’uomo. L’ordine politico, l’architettura dei regimi totalitari. L’ordine storico, le teorie cosmologiche, la suddivisione in capitoli dei libri di storia. L’ordine scientifico, lo studio del caos, la ricerca della teoria unificatrice, la spiegazione del tutto. L’ordine sociale, la percezione di che cosa è esteticamente e eticamente ordinato e che cosa no. L’ordine artistico, quello dei cataloghi d’arte e delle gallerie; nelle arti visive, la simmetria, il punto di fuga, la prospettiva; nella letteratura, gli haiku, le parole palindrome; nella musica, il metronomo. L’ordine economico, le funzioni, la retta e l’ascisse. L’ordine giuridico, l’ordine pubblico, l’ordinanza di sgombero. L’ordine naturale, le celle delle api, i nidi delle rondini.

THE HEAP - 2

L’opera è composta da singoli taxini. Taxino è un termine modellato su taxis, dal greco: ordine, in battaglia. Un altro modo per dire ordine, in greco, è cosmos: ordine universale, cosmico; buon governo, armonia. La taxis, invece, è una disposizione tattica, e prevede non un’armonia ma uno scontro, con un’altra taxis. Qual’è lo scontro per il quale i singoli taxini sono stati disposti: uno scontro con la memoria che ho di molti di questi oggetti, memoria di persone, di episodi uno scontro con la tensione naturale che spinge a disporli secondo un senso, una narrazione scontro tra taxini che vuole invece risolversi in un accumulo che trasfigura il senso di ogni singolo taxino, lasciando nel non conosciuto la storia che porta con sè;  un accumulo che mette in luce come protagonista l’essere accostato e incollato. Ho conservato ciascuno di questi singoli taxini come forma di attaccamento ad una storia in continuo divenire,  come programmazione inconscia di una società che mi vuole consum-attore. Con questa opera i singoli taxini perdono la loro singolare sacralità concentrandosi tutti in un solo luogo, e non esposti nella casa-corpo inorganico;  per non “essere” il problema dell’accumulo ma “rappresentare” il problema dell’accumulo. L’attività di accumulo passa dunque da ordinaria, e inconsapevole, a straordinaria, simbolica e artistica. L’opera sottrae i taxini al loro essere protagonisti ciascuno per se stesso, e li pone ad essere protagonisti insieme per un fine. Il materiale: sono stati scelti i taxini, e un collante. La tecnica: è stata scelta quella dell’accumulo. Il significato dell’opera: è trattato in queste pagine critiche, ed è rappresentato dall’opera stessa. Il significato personale per l’artista: camminare sulla sottile linea di confine tra il gesto liberatorio, e l’esaltazione di una problematica. Come in ogni opera, una percentuale del risultato estetico e simbolico dell’opera stessa è prodotto in parte dall’impossibilità di prevedere come interagiranno tutti gli addendi, dunque da una incapacità di previsione è prodotto in parte dal caso, da effetti di composizione incontrollati ed imprevisti. In virtù di questi fatti, l’opera esprime un mondo reale, un mondo desiderato, e altri mondi possibili e non previsti. Taxis, per estensione, significa anche “determinazione di tributo, imposta”. Il prezzo da pagare per la realizzazione dell’opera è stata la rinuncia alla proprietà materiale dei singoli taxini, la rinuncia alla proprietà dei ricordi che ogni singolo taxino evocava. Al pubblico è stata data la possibilità di interagire a distanza con l’opera, tramite i dispositivi mobili. Questa possibilità permette anche alla voce (al suono), così come all’immagine, di entrare a far parte del cumulo.

THE HEAP - 3 Ogni cosa è un cumulo, di singoli elementi interconnessi, di proprietà della materia e di forze fisiche che interagiscono; lo sguardo umano ordina questo cumulo, lo cristallizza in una forma, gli riconosce o meno un senso. L’essere umano cerca di portare ordine nel cumulo di materia esistente, per la sua sopravvivenza, per i suoi scopi organizzando la materia in cumuli dotati di senso.  Ciascuno di noi è un cumulo di taxini visibili affinata attraverso secoli di evoluzione,  modificata dalle circostanze ambientali e dai comportamenti personali; e ciascuno di noi è un cumulo di taxini invisibili quali pensieri, desideri, inconscio, memoria muscolare, comportamenti appresi.

Supermercato


Siamo abituati al supermercato. Entro, scelgo, pago, esco, e sono soddisfatto. Poi, quando ho dei malesseri dell’animo, dell’intelletto, cerco di applicare lo stesso sistema. Perchè ho dei soldi in tasca, che mi sono sudato, che valgono qualcosa, allora la risposta che posso comprare (in un libro di autoaiuto, di esoterismo, nel consulto di un esperto di simili problemi) deve per forza essere veritiera. Nessuno può comprare una risposta. Le risposte non si possono comprare, perchè non si possono confezionare. Perchè siamo tutti diversi, e invece il supermercato funziona nell’offerta di prodotti similari. La quantità di scelta, di assortimento, ci trae in inganno. Ma le infinite variazioni dell’animo umano, delle storie di ciascuno di noi, saranno sempre maggiori dell’assortimento di qualsiasi offerta da supermercato. Ci sono 6 miliardi di domande diverse, su questo pianeta. Anche se ci fosse un uomo oppure una macchina abbastanza potente da poter dare 6 miliardi di risposte esistenziali, comunque, alla fine, non saprebbe rispondere alla sua personale. Però io credo che ciascuno possa salvarsi, con fortuna e con audacia. Mi lacera che ad alcuni, per caso o Caso, non sia data la possibilità di farlo.


domenica 25 agosto 2013

Ten years (P-Ars 2013)

Superfici (P-Ars/Photography 2010)

Superfici (P-Ars/Photography 2010)Superfici (P-Ars/Photography 2010)Superfici (P-Ars/Photography 2010)Superfici (P-Ars/Photography 2010)Superfici (P-Ars/Photography 2010)Superfici (P-Ars/Photography 2010)
Superfici (P-Ars/Photography 2010)Superfici (P-Ars/Photography 2010)Superfici (P-Ars/Photography 2010)Superfici (P-Ars/Photography 2010)

Nei dettagli


Ogni volta che mi capita qualcosa, e nello specifico qualcosa di brutto, di negativo, qualcosa che percepisco così, che comunque mi fa soffrire, a prescindere se sia un dolore meschino oppure importante, che vada a colpire una vanagloria e un capriccio oppure che mortifichi una mia reale aspirazione, non è solo la questione in sè a tormentarmi. E’ il fatto che si va ad aggiungere alla mole infinita di cose che non saprò come raccontare. Dunque: per quale ragione sento il bisogno di raccontare i mali (con tutti i se e i ma del definirli mali) all’altro. Per desiderio di essere conosciuto totalmente, forse. Man mano che passa la vita, si accumulano cose, viene meno la convinzione che si possa raccontare tutto all’altro, per sfiducia, per precedenti esperienze fallimentari simili, per mancanza di tempo, per complicarsi di connessioni tra le cose, ricordi, desideri. Allora, ci si sente più soli, si diventa più soli, alle volte ci si rifugia nella convinzione che non sia necessario dire tutto, e che si possa comunicare molto anche dicendo poco. Ma questo, se anche è vero, resta sotto la superficie, nell’istinto, nell’irrazionale. I dettagli, ecco, quelli restano per sempre preclusi. E’ nei dettagli che si annida la solitudine.


Di meglio


Quando qualcosa non va come avremmo voluto, diciamo: “meglio così, si vede che è destino”, cioè che siamo destinati ad altro. Ci piace pensare: di meglio. Questa fiducia nel destino mi è sempre sembrata sospetta. Forse pecchiamo di egocentrismo. Come se l’universo fosse funzionale a noi. Ma gli altri non sono in funzione di noi. Cambiamo punto di vista: se qualcuno ha evitato me, è perchè sta andando verso il suo destino, e sta pensando: un destino migliore dell’altro, che in questo caso sono io. Questo dà chiaramente un sapore diverso alla cosa. Dunque due possono essere le posizioni: crediamo che una sorta di Provvidenza abbia deciso incroci, successi e fallimenti, e ci indirizza verso il nostro destino, che vorremmo pensare il migliore possibile (e magari, invece, è solo il nostro, funzionale ad un piano cosmico, che non prevede gioia per noi, ma una funzione sì, a prescindere) oppure è tutto un gioco di casi, più o meno controllabili e controllati, attraverso i quali ci districhiamo. I più deboli, forse, accettano un compromesso e si fermano lungo la strada, altri rimangono fedeli ad un ideale, e sono condannati a vagare per sempre, alla ricerca. E nemmeno decidiamo se essere dei primi o dei secondi qui sopra citati.



mercoledì 21 agosto 2013

Dove finisco io 2012

Dove finisco io (P-Ars/Photography 2012)Dove finisco io (P-Ars/Photography 2012)Dove finisco io (P-Ars/Photography 2012)Dove finisco io (P-Ars/Photography 2012)Dove finisco io (P-Ars/Photography 2012)Dove finisco io (P-Ars/Photography 2012)
Dove finisco io (P-Ars/Photography 2012)

Dove finisco io 2012, un set su Flickr.

L'imbarazzo


Dell’infanzia, una delle sensazioni che ricordo in modo più nitido è l’imbarazzo. Non dico timidezza, perchè dai racconti dei miei nonni non sembra che io fossi introverso. Mio nonno mi portava in passeggino lungo corso Regina, ed io salutavo tutti quelli che incrociavamo. E se non mi salutavano a loro volta, chiedevo a mio nonno perchè non lo facessero. Quante volte mi è stato raccontato questo. Però, l’imbarazzo sì. L’imbarazzo di essere in mezzo alla gente, magari dover fare qualcosa, e già pensavo a che cosa pensavano gli altri e via dicendo in quella spirale avvolta su se stessa. L’imbarazzo in classe, alle elementari, con i miei compagni, per un’interrogazione andata male. Non ricordo bene l’occasione – forse eravamo a Villa Gualino, per Experimenta – ma una delle suore della scuola dove frequentavo le elementari aveva detto a mia madre: Andrea non farà mai niente da solo. Fa le cose solo se ci sono gli altri. E mi diceva: vecchione. Se un vecchio, che cosa tremenda mi diceva, ora che ci penso: forse perchè ero più tranquillo, più posato, perchè mi piaceva guardare, capire, leggere? Mi diceva che ero un bambino vecchio. Quale trauma mi paralizzò, e quando? Ci sono radici di cui ci si può liberare?